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Speranza parla forte e lo fa a tutto il mondo con “L’Ultimo a Morire” – Recensione

Il primo album si sa, è un banco di prova, soprattutto per un artista come Speranza, al secolo Ugo Scicolone, arrivato al  grande pubblico due anni fa con una serie di singoli potentissimi, rappati in dialetto casertano, in francese e in romanì (la lingua delle popolazioni Rom e Sinti). Brani non esattamente facili da digerire per il grande pubblico, complice anche la voce roca ed urlata che lo contraddistingue.

Nonostante questa sua particolarità Speranza ha subito suscitato l’interesse degli ascoltatori, alzando le aspettative per il suo album di debutto alle stelle. Aspettative che, senza ombra di dubbio, non sono state deluse: L’ultimo a Morire si candida per essere uno dei dischi più dirompenti di quest’anno.

Un bel disco deve avere una certa coerenza, non può essere come un mixtape dove si possono anche unire una serie di singoli, insomma un disco va ragionato per bene. Sembra che Ugo questa cosa l’avesse molto chiara in mente, benchè non si sia avvalso di un unico producer, e già al primo ascolto si sentono una coerenza e una ricercatezza musicale non indifferenti.

Ben visibili sono le influenze house e techno, con molti pezzi in cassa dritta ma sempre caratterizzati da tonalità oscure, date spesso da campionamenti di tastiera. Non mancano ovviamente riferimenti alla musica tradizionale Rom (come in Camminante, in featuring con Rocco Gitano) o con influenze arabeggianti (come in 100 Anni). In un disco di Speranza poi non possono mancare bassi potenti tanto quanto la sua voce.

Per quanto il lavoro musicale sia ben riuscito e coerente forse la parte migliore del disco rimangono i testi di Ugo, uno spaccato sincero della vita di strada, resa ancora più dura dalle difficili condizioni nelle quali purtroppo versa il Sud Italia. La cosa più interessante sono le connessioni che questa strada ha portato nella vita di Speranza, dimostrando che i confini sono una barriera puramente mentale.

Della multiculturalità non ne dovremmo neanche parlare, non è una cosa che ho scoperto, ci sono nato e ci sono vissuto. Non c’è questa cosa di vedere lo straniero come un marziano, anzi mi augurerei di avere un amico marziano.
(Speranza, intervista di Noisey Italia)

Si parla delle banlieue di Beheren, paese in Francia dove Speranza è cresciuto, e si passa con scioltezza alle popolari di Caserta, come se le esperienze di vita fossero le sole cose che legano le persone e non sicuramente il colore della pelle. Dalla provincia campana si arriva a Gaza con un’espediente lirico stupendo, due barre vuote in ricordo delle vittime palestinesi, con Russki Po Russki invece si torna a nord fino in Polonia, un omaggio alla comunità polacca che si trova a Caserta.

Gli ospiti stessi del disco aiutano ad ampliare questa mappa di intrecci di strada: Tedua ci porta nella sua Cogoleto con un pensiero alle rivolte negli States, Massimo Pericolo ci riporta nella provincia varesina, Rocco Gitano con la sua appartenenza all’etnia Sinti ci parla di un popolo sparso su tutto il globo, Kofs infine ci porta nella sua Marsiglia. Proprio tra i feat forse c’è una delle poche critiche che si potrebbero fare al disco, ovvero Guè Pequeno, che sembra un pesce fuor d’acqua: una strofa che non da merito alle capacità liriche che ha espresso in passato che non aggiunge molto al disco, anche se proprio il ragazzo d’oro è stato tra i primi “big” a spingere Speranza, permettendogli di arrivare a un pubblico più ampio.

Gran parte dei testi sono caratterizzati da una profonda critica sociale: alla superficialità del lusso, all’abbandono delle periferie da parte delle istituzioni, allo spaccio e alla violenza nei quartieri, senza farsi mancare un bell’attacco diretto a Salvini, il tutto affrontato con una lucidità che probabilmente il mainstream non ha mai visto.

Insomma Speranza ha fatto un disco che parla a tutto il mondo senza il bisogno di fregiarsi di ospiti di calibro enorme per poter essere internazionale, un debutto formidabile. Ora aspettiamo solo di poterlo rivedere live, dove forse sale ancora più in alto.

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