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Saudade: non solo nostalgia in riva al mare per gli Oremèta

Sulle spiagge di Ostia al tramonto. E’ qui che immagino di essere ascoltando gli Oremèta.
Il primo disco degli Oremèta, uscito per Glory Hole, si chiama “Saudade”; questa parola indica un rimpianto nostalgico e spirituale tipico delle manifestazioni letterarie e musicali del popolo portoghese. 

Gli Oremèta sono un collettivo romano formato da Dario Cangreo, Chiara Pisa e Giulio Gaigher, tre inquilini dello stesso condominio di Ostia che si sono uniti musicalmente durante il lockdown per esorcizzare la noia e l’alienazione del periodo.
Dario Cangreo, oltre a suonare l’armonica e la chitarra, ha un flow caldo e pieno di emozione che, come dalle pagine di diario di un navigatore, arriva dritto e potente come solo le belle liriche sanno fare. La sua penna è capace di trasportare l’ascoltatore su mood completamente differenti tra loro, grazie a una tecnica notevole nell’incastro delle parole e un timbro vocale leggermente graffiato. Nei suoi testi c’è il racconto della sua interiorità in rapporto con l’esterno, ma anche nella semplice quotidianità, un po’ come nel diario di un viaggiatore.

Chiara Pisa, invece ha un background da attrice, ma la sua voce è espressiva più che mai quando canta, intrecciando la dolcezza del suo timbro con le atmosfere più nostalgiche del blues e l’introspezione dei versi di Dario. Insieme a loro due c’è, a mio parere, una terza voce particolarissima che è l’armonica; come un’ombra compare e scompare inserendosi nelle melodie con questo suono metallico e mistico, come se il fiato che vi scorre attraverso si trasformasse in una lingua umana, ma universalmente comprensibile.
Giulio è il produttore e lo strumentista del gruppo specializzato nella batteria, che crea lo scheletro su cui si sovrappongono e si incastrano le barre di Dario e i suoi ritornelli a due voci con Chiara.
C’è più di un’ispirazione hip hop sia nelle barre che nelle basi, ma si unisce ad un’anima blues e soul, ai suoni e alle immagini dell’ America latina e dell’Africa. La chitarra, l’armonica a bocca, la batteria sostengono tutta la linea melodica che poi viene riempita di canto e di barre creando uno stato di calma apparente, perturbata dalla malinconia dei testi e agitata da storie e conflitti.
L’hip hop batte al ritmo della batteria e colpisce dritto in faccia con i testi che creano insieme alle varie sonorità un connubio perfetto; in “Pangea” viene sintetizzato alla perfezione quello che io ho avvertito sin dal primo ascolto: “Saudade” è:

“il canto di un organo gospel sui tasti dell’Akai” – “Pangea”

Dentro “Saudade” c’è tanta Roma, in particolare la sua costa, ma c’è anche la città multietnica nella sua dimensione di piccolo mondo, scandagliata nelle sue fessure, e soprattutto nelle sue fratture, nonostante lo sguardo sia ostacolato dalle porte e dalle finestre chiuse del lockdown; ma nonostante ciò, c’è uno studio profondo dei sentimenti dell’essere umano intrappolato in questi due anni drammatici.
Come se attraverso le canzoni venisse creata una bolla per l’ascoltatore che vi entra dove rimane in comunicazione con l’esterno, anziché isolarsi; un po’ forse perché questo disco è stato concepito e realizzato in un periodo in cui effettivamente vivevamo in una bolla, ma che è riuscito a restare all’ascolto.
Inevitabilmente la pandemia ha influenzato la scrittura dei testi: infatti in “Quarantena” c’è una bellissima telefonata di Chiara alla nonna in cui parlano di come si sentano rispetto alla situazione, un po’ come tutti abbiamo fatto quotidianamente. Due generazioni distanti nel tempo, ma profondamente connesse nel momento della loro massima distanza. La telefonata lascia il posto ad una base quasi oscura che incarna la speranza soffocata dalla rassegnazione, sensazione che tutti abbiamo provato in questi due anni.

“che sia in alto mare o che sia un altro mare, salva chi vedi annegare” – “Meta”

E’ solo una delle prese di posizione solidali e antirazziste di “Saudade” con cui gli Oremèta si schierano dalla parte non solo dei migranti, ma di tutti gli emarginati, grandi coprotagonisti di questo disco. L’odio subdolo di chi non mostra alcun sentimento verso chi si trova in difficoltà si rivela nelle sue sfaccettature più cruente in “Diario” e “Passaporto”, che riflettono lo sfruttamento dei lavoratori sottopagati, la violenza delle squadre di polizia e l’opportunismo politico. L’amore per la propria patria non diventa il pretesto né per sprangare la porta e osservare dal buco della serratura la sofferenza altrui, né per escludere le persone e costringerle a covare odio e violenza per sopravvivere alla disperazione e all’indifferenza.

”siam meno connessi al suolo da quando evitiam la pioggia, lei la sola, che di roccia ha la grazia di una goccia” – “Diario”

C’è un legame intrinseco tra questo disco e la natura, sia per le immagini naturali utilizzate, sia perché ascoltando l’album si avverte in prima persona l’incessante cullare delle onde del mare e allo stesso tempo il boato della tempesta. Lo sfruttamento urbanistico e industriale è uno dei topic negativi del disco, cui loro contrappongono un contatto e un rapporto viscerale con la natura, che passa inevitabilmente attraverso la musica. La Terra, con la T maiuscola, sta agonizzando lentamente come sotto un sacchetto di nylon e implora attraverso la musica la fine dello sconsiderato utilizzo delle risorse naturali e lo sterminio di interi ecosistemi.

“e non credo la terra possa respirare da sotto il catrame che hanno steso sulle strade, dopo averlo raschiato dalle ali dei gabbiani” – “Interludio”

Si è creata una connessione tra me e questo album, in un modo quasi spirituale e simbiotico, offrendomi un momento di estrema concentrazione e ascolto. Sono l’Ascoltatore, nel vero senso della parola.
E’ come “Se alle sei”, quando il cielo comincia a farsi rosso, da Ostia partisse una piccola barca che si allontana verso il largo, e tra i suoni e le atmosfere create da “Saudade”, l’Ascoltatore si ritrovasse a ragionare con sé stesso al calar del sole.