every time i die radical recensione review

Radical degli Every Time I Die: camicie a scacchi e corone

Gli Every Time I Die sono a parere di molti, e anche del sottoscritto, uno dei pochi casi esistenti di band del giro Impericon ad essere invecchiate non bene, ma benissimo.

Nonostante infiniti tour con artisti di stampo prettamente metalcore e una carriera di quasi 25 anni tra Warped Tour e Never Say Die! il quintetto di Buffalo ha ampliato continuamente il proprio devastante repertorio sonoro; partendo dagli inizi con la fame di chi si deve prendere tutto sul palco e l’aggressione sonica mathcore, hanno piazzato un mattone sopra l’altro e, dal progetto punk hardcore iniziale, si sono ritrovati in cima alla lista dei nomi caldi e più seguiti del genere. Sarà quel look da white trash con i baffi a manubrio e le camice a quadrettoni, ma se già con “Low Tees” del 2016 ci avevano anticipato una golosa deriva stoner blues di sottofondo, su “Radical” hanno definitivamente aperto il gas fino in fondo, balzando ai cuori di chi già li apprezzava e alle orecchie di chi ancora non li conosceva.

That’s Amore!
Il nuovo lavoro presenta 16 tracce super eterogenee mixate dal riconfermato Will Putney (producer di The Ghost Inside, Body Count, The Acacia Strain, Knocked Loose e chitarrista dei Fit For An Autopsy) che mettono la bandierina sul nono album in studio come, forse, il migliore della loro carriera. Non ci sono filler, ogni pezzo tira fuori un lato nascosto della band e molti che non avevamo ancora visto, mantenendo alta l’attenzione. Che sia l’assalto frenetico all’arma bianca pieno di dissonanti a cui siamo familiari (A Colossal Wreck, The Whip, Hostile Architecture), i momenti più cerebrali (White Void, Things With Feathers) o il blend equilibrato fra questi due elementi il risultato è sempre e comunque 200% ETID.

La base è solida e partendo dalla opener “Dark Distance”, su cui azzeccano senza volerlo il tema della piaga in arrivo (il disco è stato registrato a fine 2019/inizio 2020), una vera cannonata da live show seguita dalla febbrile “Sly”, con un ritornellone cantilenato che sviscera l’anima animale dell’essere umano chiamandola miracolo. “Planet Shit” è stata uno dei primi singoli che anticiparono l’uscita del full e tra continue accelerate, riffoni di Andy e Jordan dal retrogusto country e la magia di Keith alla voce si staglia come pezzo must live per incendiare lo stage diving. Non fraintendete il termine country, che su questo disco viaggia sempre a Bpm altissimi. “Post-Boredom” è uno di quei pezzi a cui ho regalato almeno duemila play, nel senso che per una settimana lo ascoltavo tutti i giorni, più volte al giorno e in quei momenti clou in cui ci vuole la canzone bomba. Che dire?

Stephen Micciche parte facendo capire come si splettra un basso a dovere, introducendo la strofa già perfetta per Keith che ci toglie ogni dubbio sul fatto che urlare in maniera prolungata negli anni non fa male alle corde vocali. I fan oltranzisti si lamenteranno che la deriva sta diventando troppo melodica, ma come sempre dobbiamo cogliere la differenza tra le cacate commerciali dei BMTH con la musica “underground” di qualità; le virgolette servono solo a denotare il fatto che gli ETID, seppur riempendo sempre i posti e macinando numeri, provengono da una situazione davvero molto real che si portano cucita addosso con orgoglio. Infiniti tour nei primi 2000 con Poison The Well, Dillinger Escape Plan e Converge in furgoni scassati e puzzolenti hanno lasciato un segno indelebile su questi musicisti, e lo si denota anche sulla scelta dei featuring.

Josh Scogin (Norma Jean, The Chariot, ‘68) sulla violentissima “All This And War” e Andy Hull dei Manchester Orchestra su “Thing With Feathers”, dalle atmosfere delicate e malinconiche. Entrambe rappresentano i due poli opposti del progetto in perfetta coesistenza. Il disco prosegue su questa ambivalenza ancora dominata dal fattore caotico ed oscuro, ma disco dopo disco gli Every Time I Die ci stanno abituando, appunto, a non abituarci a una formula pre impostata. E di questo penso di doverli, almeno personalmente, ringraziare, in quanto le band di questo maxi genere ormai le ho date tutte per perse, rincorrendo chimere immaginarie come le streams dei trapper o i feat con artisti improbabili solo per restare sulla cresta degli emo trentenni.

No grazie! Il quintetto pirata di Buffalo capitanato da un mostruoso Keith Buckley, assoluto dominatore dell’incontro con una voce e una presenza che molti ventenni possono solo sognare, si sta spingendo in zone sconosciute e sono ancora davvero carico per vedere dove attraccherà la nave nella prossima scorreria: possibilmente in mezzo al pit.