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Le mille anime del rap in Mr.Morale & The big steppers

Anche se è ancora presto per avere un parere definitivo, l’ultimo album di Kendrick Lamar ha senza dubbio scosso il panorama discografico internazionale, diventando oggetto di discussione per tutti coloro che amano il rap e la musica in generale.
A tratti misterioso e ambiguo, supportato da pareri discordanti e con testi di non immediata comprensione, l’unica cosa che possiamo dire con certezza è che Mr. Morale and the Big Steppers è un disco destinato a restare.

La genesi del disco

Le aspettative per il disco erano altissime: dopo 5 anni da DAMN, Kendrick torna con l’ultimo progetto sotto la storica etichetta Top Dawg Entertainment. Come altri suoi precedenti progetti, il disco è anticipato dal singolo The Heart Part 5, che ha suscitato numerosi interrogativi nei fan a partire soprattutto dall’intro “I Am. All of us.” firmato oklama, nuovo possibile alterego del rapper di Compton.
Nonostante la traccia non sia contenuta nell’album, il video ci fa intuire quale sarà l’atmosfera che K Dot ha costruito: sta parlando dell’America all’America, delle ferite economico-sociali del suo popolo che con la pandemia si sono riaperte, della violenza della polizia sulla gente afroamericana e del sangue versato nelle strade ma soprattutto della sua vulnerabilità come uomo e come artista.

Attraverso le 18 tracce divise in due dischi, Kendrick accoglie una vasta gamma di ospiti, tra cui Sam Dew, Taylour Paige, Sampha, Ghostface Killah, Summer Walker, Kodak Black e Beth Gibbons dei Portishead. Tra i produttori spiccano invece Sounwave, The Alchemist, Duval Timothy, Pharrell e il cugino Baby Keem, che appare in numerosi titoli, sia come voce che come producer.

È interessante notare come non siano feat scontati, fuori dalle logiche del mercato discografico odierno che tende a replicare continuamente gli stessi nomi nelle tracklist dei progetti più conosciuti. Le voci si incastrano tra loro, gli interlude non sempre vengono fatti dallo stesso Kendrick, Baby Keem e Sam Dew si ripropongono su più tracce con anche ruoli differenti; sembra insomma un progetto collettivo, come se avessero lavorato a più mani ottenendo però un risultato omogeneo.

Mr. Morale & The big steppers, una lunga seduta di psicoanalisi

Il disco si apre con United in Grief, nella quale Lamar conta i 1855 giorni passati dall’ultimo disco: in questo periodo ha avuto modo di pensare agli obiettivi raggiunti in quasi due decenni di carriera ma anche delle insidie della fama. Racconta senza filtri la sua esperienza e nomina le persone che ha sentito più vicino in questi anni di ‘assenza’, tra cui l’amico di lunga data Dave Free, con il quale condivide la creazione della nuova etichetta pgLang.

Segue N95 dove descrive le conseguenze della pandemia e polemizza nuove tematiche sociali – la cancel culture nello specifico – di cui sente il peso della responsabilità gravargli addosso: l’impegno per la sua comunità è quotidiano, quello che racconta è la sua testimonianza diretta e non ha bisogno di farsi immortalare in cortei per diventare portavoce di una collettività.

Costante è anche il tema del tradimento, rievocato attraverso la voce della moglie Whitney Alford in varie tracce: il flow spezzato ci guida dentro a un vortice di crisi personale dove Kendrick racconta i suoi problemi famigliari e si rivolge ai due figli. Questo tema della paternità è ricorrente anche nella traccia successiva, Father Time, nella quale fa un parallelo tra la sua relazione con il padre e quella che sta costruendo con i suoi figli.

Die Hard, Rich Spirit e Purple Heart danno respiro e si aprono a suoni più RnB che strizzano l’occhio alle classifiche radiofoniche. Quest’ultima vanta la collaborazione del membro del WuTangClan Ghostface Killah, che poteva essere più incisivo ma viene salvato dalla voce calda di Summer Walker nei ritornelli.

Una traccia di una potenza disarmante è l’immensa We Cry Together. Lamar e l’attrice Taylour Paige raccontano un amore tossico, inscenando un’ipotetica discussione sulla base di The Alchemist che ha campionato June dei Florence and The Machines, che fa emergere emozioni incoerenti ma vere e spesso presenti nella quotidianità di due amanti.

Il ritmo rallenta

Se la prima parte aveva sonorità più soul con arrangiamenti innovativi che ampliano dal rap vecchia scuola al jazz, la seconda è più cupa ed introspettiva, con suoni più pesanti. Count me out torna alle tematiche religiose dei suoi lavori precedenti, frequenti sono i beat switch che permettono ai produttori di assumere un ruolo determinante nel racconto. Crown è una preghiera vera e propria, il flow è lento, you cant’please everybody  canta il coro – ricordando molto You Ain’t Gonna Lie (Momma Said) – mentre il rapper si rende conto che le aspettative che gravano su di lui non riuscirà mai a soddisfarle.
L’outro dell’intermezzo conduce dolcemente a Savior con un pianoforte in un tempo lento. Il testo può risultare a tratti problematico perché non è esente da considerazioni politiche estremamente attuali, come il recente attacco all’Ucraina da parte della Russia.

One protest for you (High up)
Three-sixty-five for me (You really wanna know?)

Vladimir making nightmares (How I get so low?)
But that’s how we all think (Only one way to go)
The collective conscious (High up)
Calamities on repeat, huh

L’apice del disco è forse Mother I sober, dove in sette minuti su tre strofe il rapper racconta il trauma di sua madre, che fu violentata a Chicago da giovane. Parte da un trauma personale per allargarlo poi ad una riflessione sulla sofferenza di una generazione intera, mentre la voce di Beth Gibbons ci culla nel ritornello.

Mirror chiude l’album ma apre tante domande. Come un predicatore, Kendrick viene accompagnato da una sonorità in crescendo che spinge verso l’alto la sua guarigione. Un cerchio che si chiude perfettamente nel rivolgersi alla moglie, ai figli, agli amici morti e a quelli in vita che lo supportano.
I choose me, I’m sorry ripete come una preghiera, consapevole che il suo percorso di crescita  gli ha permesso di superare traumi razziali, generazionali e personali.

La sua storia, la nostra storia

Mr. Morale & The big steppers è un album terapia, dove il rapper si affronta nel corso di un percorso introspettivo, confrontandosi con se stesso e con l’ambiente che lo circonda, consapevole che non può più prescindere da certe dinamiche, mentre cerca di affrontarle nel modo più onesto possibile.

È un disco generazionale, creato con l’intenzione di parlare a quante più persone possibili. Kendrick è conscio e rispettoso dei suoi fan, sa che finalmente sono pronti ad ascoltare queste tematiche, ma forse è inconsapevole del fatto che questo album diventerà un manifesto musicale generazionale per milioni di persone. È  inevitabile la pretesa di aspettarsi anche nella musica dei cambiamenti culturali e politici, senza scontentare chi ama le sonorità e il lifestyle dell’hip hop, e Kendrick ci è riuscito, costruendo un album adulto pronto per un pubblico adulto.
Il disco finisce e lascia in bocca il sapore della rivalsa e una gran voglia di continuare ad amare questa musica.