jake la furia ferro del mestiere recensione

Jake La Furia non ha mai messo via il “Ferro del mestiere”

Quando Jake La Furia ha annunciato il nuovo disco da solista siamo rimasti tutti con il fiato sospeso. Dopo l’enorme successo di 17, un disco solista poteva essere o una riconferma del suo status o una delusione, e dopo quasi un mese dall’uscita di Ferro del mestiere possiamo dire che non ci ha certo deluso.

Dobbiamo abituarci all’idea che gli artisti cambiano, evolvono, e non possono essere tenuti in scatole preconfezionate. Jake è stato un caposaldo degli anni d’oro del rap italiano con i Dogo e ha contribuito a portare il rap nella posizione di cui gode ora nel panorama discografico. Ma ora, in quanto artista singolo, può lavorare come vuole, e lo dimostra passando dal reggaeton al pop, per poi tornare con un disco rap a tutti gli effetti.

Le produzioni

Con questo disco, che è solo la prima parte di un progetto diviso che uscirà successivamente, l’artista sembra continuare sul modello del disco in collaborazione con Emis Killa: le produzioni sono principalmente affidate a Big Fish, 2nd Roof e Night Skinny, e ogni traccia ha un sound variegato che però, grazie alla scrittura uniforme, rimangono tra loro coerenti.

Veramente interessanti sono però le tre produzioni nelle tracce da solista. Young Satana accompagna Jake in 20 Primavere, senza dubbio una delle intro più belle dell’anno. Jumpman, prodotta da Drillionaire, ha quei suoni cupi e bassi che carica le parole di colori scuri, adatti all’immaginario di una Milano avvolta dal buio e dallo smog.
Infine vediamo una collab con Dj Shocca in Caramelle da uno sconosciuto che, con gli scratch alla fine, fa scendere una lacrima a chi sperava in un ritorno al vecchio stile.

I featuring

Su 11 tracce, sei sono feat, e anche se i nomi sono molto legati alle classifiche del momento, non ce n’è uno sbagliato. No, nemmeno quello con Ana Mena.

Jake ha giocato d’astuzia inserendo Emis Killa in un feat che non da nulla di più rispetto al loro disco precedente ma che riconferma un buon sodalizio, pensato appunto per essere il proseguimento di Broken Language.
La cosa giusta con Inoki in seconda strofa è la traccia che tutti stavamo aspettando: scorrendo su una produzione di Mace, si sente il peso di una scrittura adulta, capace di descrivere le sensazioni che vent’anni fa vivevano i ragazzi della nostra generazione durante i primi approcci al rap. Forse l’unico neo è la fine, che va un po’ a perdersi.

I soldi e la droga con Lazza forse è uno dei migliori del disco: le sonorità entrano in testa, e seppur il testo rimanga al livello di scrittura arrogante e prepotente, è quello che funziona meglio a livello commerciale. Anche L’amore e la violenza con Paki e 8blevrai è una buona traccia. L’incredibile entrata di Jake introduce uno storytelling di vita personale intervallato da un ritornello in francese ad effetto.

Invece, nel feat con Noyz Narcos e Young Snapp non fa altro che rimarcare qual è il suo status:
“Ma so fare il rap e non me ne fotte un cazzo del pubblico”.
L’attitudine di Jake è sempre la stessa da anni, è importante fare musica secondo la sua sola esigenza, guadagnarci e sottolineare che può fare quello che vuole, nonostante gli anni il re di Milano rimane lui.

Se mi tagliassi le vene, uscirebbe aria con lo smog 

Il punto forte dell’album è sicuramente il compromesso che ha fatto per permettere ad ogni tipologia di ascoltatori di apprezzarlo. Ci sono tracce e feat che possono entusiasmare i fan di vecchia data legati ancora all’immaginario dei Dogo, con punchline che gasano e che ti fanno venire voglia di andare a sentirlo live.
Per chi invece lo ha conosciuto negli ultimi 7/10 anni ci sono tracce che sono coerenti con quello che nell’ultimo periodo ha prodotto; allo stesso tempo ha creato un disco – attraverso alcuni contributi – che può farlo arrivare anche ai più giovani che non lo conoscevano, o che non conoscono a pieno la sua storia.

Il punto debole, a mio parere, è l’eccessivo legame con Milano nella scrittura. Senza dubbio Jake è uno di quelli che parlano solo di quello che hanno vissuto davvero, ed è un disco che attraverso i testi racconta l’evoluzione della città nei decenni, e di come è arrivata ad essere un avamposto del rap italiano.
Eppure c’è il timore che un ascoltatore non abituato a vivere quelle strade e quei quartieri si perda completamente la forza di quell’immaginario. C’è il rischio che oltre il confine lombardo il disco perda della sua forza narrativa, non rimanga come un disco universale, ma che venga sopraffatto da altri lavori nel corso del tempo.

Ad ogni modo questo è stato un disco importante, perché ha richiamato l’attenzione anche ai non assidui sulla figura di un peso massimo della musica italiana, che con questo terzo disco ha riportato l’interesse sul suo modo di vivere la musica da solista.
Ora non ci resta che attendere la seconda parte di Ferro del mestiere.