FOTOGRAFIA EUROPEA 2022 4/5: NICOLA LO CALZO

Penultimo appuntamento con le 5 mostre del Festival Fotografia Europea 2022  che ci hanno colpito  e che abbiamo scelto di consigliarvi a cadenza settimanale da qui alla fine del festival e ultimo weekend per visitare questa edizione di Fotografia Europea a Reggio Emilia.

BINIDITTU di Nicola Lo Calzo

Crescere negli anni ’90 ha significato molte cose per me: vivere un’epoca in cui i modem producevano lo stesso rumore di un aereo in fase di decollo, trascorrere ore davanti alla televisione in attesa di vedere il proprio video musicale preferito, utilizzare internet passivamente senza poter creare contenuti.
Ma tra tutte le cose che ha più condizionato l’essere cresciuta in quell’epoca c’è sicuramente l’essere costantemente svezzata e imboccata a suon di “retorica dell’identità”.

L’idea socialmente diffusa di determinare la nostra “identità” come individui singoli e unici all’interno della società perché, in funzione di ciò che riusciremo ad essere o meglio “avere, la società potrà scegliere se accoglierci o respingerci attivando la scalata sociale meritocratica che promuove l’idea secondo la quale attraverso il nostro sacrificio e il nostro impegno potremo finalmente avere un posto nel mondo universalmente riconosciuto.

La più grande stronzata retorica che il capitalismo abbia mai contribuito a costruire.

Perché se c’è una cosa che la fotografia ci ha insegnato è che le nostre risposte non sono mai universali ma sono la somma delle culture, degli spazi e del tempo che abbiamo vissuto. Capire questo mi permette costantemente di porci delle domande, ma soprattutto di capire che le risposte corrette non sono mai quelle che arrivano dal solo nostro vissuto: dall’epoca in cui siamo cresciuti e dalla porzione di mondo che abbiamo attraversato.

“Binidittu è un progetto che, attraverso il racconto della storia e dell’eredità culturale di San Benedetto il Moro, prende in esame i rapporti fra la storia del colonialismo e l’identità culturale contemporanea.

Nato da schiavi subsahariani agli inizi del Cinquecento nei dintorni di Messina, e poi vissuto come frate francescano in Sicilia fino alla sua morte (1589), San Benedetto, detto Binidittu, non solo è stato eletto a protettore sia degli afro-discendenti in America Latina sia dei Palermitani, ma è diventato anche icona di riscatto ed emancipazione a livello mondiale. La mostra, attraverso immagini di medio e grande formato, ripercorre le tappe principali della biografia di Binidittu: dall’affrancamento dalla schiavitù alla sua morte, dall’utopia post razzista alla beatificazione. “

In un sistema capitalista in cui il lavoro è un meccanismo di privazione di libertà, di limitazione di diritti, di disuguaglianza identificare le persone attribuendo loro un valore in base al lavoro che svolgono, al loro reddito o alla posizione sociale che ricoprono grazie a quel reddito significa aver contribuito a rinnovare una nuova concezione moderna di schiavitù.
La definizione da manuale direbbe che il lavoro è la messa a disposizione di proprie capacità in un arco di tempo determinato in cambio di una adeguata retribuzione.
Questo è quello che ci insegnano, ma presto capiamo che nel capitalismo il lavoro non è questo.

Nel capitalismo il lavoro è un meccanismo di potere attraverso cui l’economia dominante determina il valore del nostro tempo in maniera unidirezionale, applicando forme di disuguaglianza mascherata da meritocrazia e attraverso cui determinando un sistema in cui il guadagno della massa è determinato dal lavoro, determinando il valore di un singolo lavoratore, determina di fatto i suoi diritti.
Il lavoro è quindi un rapporto non solo di forza sulle masse, ma anche di sottomissione e privazione dei diritti.E’ qualcosa che alcuni di noi realizzano e altri no, ma sta di fatto che tutti ad un certo punto pensiamo che se riusciamo a trasformare qualcosa che amiamo in un lavoro questa sarà una forma di liberazione.
E questo per qualcuno può essere una soluzione, ma nell’esatto momento in cui liberiamo noi stessi dobbiamo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che per il resto della popolazione il lavoro rimane comunque una forma di privazione di libertà, una forma di schiavitù appunto.
Ed essendo il lavoro nel capitalismo un sistema che funziona per addizione e sottrazione, ogni nostro privilegio viene raggiunto attraverso la sottrazione del valore di qualcun altro, spesso di molti altri.

Per intenderci ogni volta che qualcuno ci paga per compiere un gesto: quel gesto può essere sottopagato o sovrapagato rispetto allo stipendio di chi si trova seduto accanto a noi al tavolo di lavoro. Se il nostro gesto viene sottopagato siamo noi gli sfrutttati, se invece viene pagato di più è perché qualcuno verrà sottopagato per permettere a noi di ricevere con un piccolo gesto più soldi di quanti dovremmo ricevere.

Qualcuno di voi dirà: “Ma io guadagno tanto perché il mio lavoro vale tanto”, ma il lavoro è un sistema e ognuno di noi fa in base alla propria storia di privilegio a discapito di chiunque sia meno privilegiato.
E qui arriviamo ad un caposaldo della critica alla retorica della meritocrazia: ciascuno di noi alla nascita possiede più o meno privilegi, quindi a parità di traguardo, le condizioni di nascita e di vita determineranno un percorso più semplice o più complesso per accedere a quello stesso obbiettivo: in poche parole anche se la destinazione tra due persone è la stessa, la distanza da percorrere per raggiungere quella destinazione sarà esponenzialmente diversa.

Ma soprattutto se il lavoro ci imprigiona importa davvero quanti soldi siamo in grado di accumulare nella nostra prigione e se anche un giorno avessimo abbastanza soldi per pagare la nostra cauzione, avremo liberato il mondo o solo noi stessi da quella forma di schiavitù?

ll lavoro è un sistema ingiusto e imperfetto a cui siamo tutti ancora costretti e proprio per questo, per via di questa costrizione tutti siamo costretti a vivere compromessi nella contraddizione.
E allora cosa resta? Cosa resta di una società che ci ha nutrito a pare e retorica del “sei il tuo lavoro”?
Ci resta la lotta, la capacità di contrapporci a quei  meccanismi identitari controversi e imporci di essere in funzione di quanto combattiamo quel sistema.

Noi non siamo la schiavitù.

Noi siamo la lotta alla schiavitù.

Ed è questo quello per cui verremo santificati, non per la capacità di Resilienza, ma per la capacità di Resistenza.

Non saremo mai solo e soltanto individui meritocratici, ma maree resistenti, romperemo la retorica del viaggio dell’Eroe perché non esistono Eroi e Santi, ma solo Anime Resistenti.
La lotta non sarà contendersi la stretta cima della piramide, ma scendere tutti i propri gradini e ritrovarsi uniti alla base.

Ogni causa va combattuta e conquistata non in funzione del proprio spazio di merito, ma va perseguita individuando il proprio spazio di privilegio (seppur minoritario rispetto ad altre categorie privilegiate) per garantire una più equa distribuzione di spazi di rappresentanza e autodeterminazione di categorie meno privilegiate della nostra.
Lottare non significa garantire più diritti o più privilegi per se, ma agire il proprio spazio di privilegio per garantire più diritto o più privilegi per tutti e tutte ed è per questo che con buona pace del sistema dell’arte, le più grande forme d’arte contemporanea si trovano li dove vivono le Anime Resistenti.