FOTOGRAFIA EUROPEA 2022 3/5: KEN GRANT

Prosegue la nostra serie con le 5 mostre del Festival Fotografia Europea 2022  che ci hanno colpito e che abbiamo scelto di consigliarvi a cadenza settimanale da qui alla fine del festival. Oggi parliamo della terza mostra che abbiamo scelto tra quelle esposte.

BENNY PROFANE di Ken Grant

Una volta una persona mi ha detto: “La vita non ci dà mai più di quanto siamo in grado di sopportare”.
Secondo questa teoria ogni volta in cui la vita ci sottopone al dolore, alla sofferenza e all’ingiustizia il peso di tutte queste cose è calcolato nella misura di qualcosa di sopportabile in base ad una forza in potenza che svilupperemo resistendo ad essa.
O come direbbe qualcun altro: “Siamo la somma degli sforzi che facciamo per migliorare noi stessi”.

Ecco ma se è la vita stessa a darci tutte queste cose di cui poi lei stessa è il risultato in che cosa consiste esattamente la vita?
Vorrei dire che crescendo ho compreso una visione più elaborata della vita, ma la verità è che ancora sono ferma a quella visione di essa come di qualcosa composto principalmente di tempo e spazio.
Ecco se dovessi spiegare a qualcuno che cos’è la vita probabilmente lo farei così: disegnerei un diagramma cartesiano in cui le ascisse sono composte dallo spazio e le ordinate dal tempo. Ecco la nostra vita altro non è che la linea che passa per tutti punti tracciati che segnano l’incontro degli spazi in cui ci siamo trovati ed i momenti che abbiamo vissuto.

Appare evidente allora che la libertà sia la probabilità che ciascuno di noi ha lungo il corso della propria esistenza di poter autodeterminate quali saranno i luoghi e i tempi, senza che a farlo siano forze esterne.
E’ a questo che penso quando guardo Benny Profane di Ken Grant: a quanta libertà ciascun individuo ha di poter agire su tempo e spazio, autodeterminando la propria esistenza.
Quella probabilità di libertà non ha pertanto la stessa percentuale per tutti, ma dipende da una serie di fattori che la società impone come più o meno favorevoli alla nascita, fattori e categorie che all’apparenza non dovrebbero avere nessun significato, ma a cui la società ha imposto, sulla base della falsa retorica meritocratica, di avere quindi un valore appunto: il genere, il colore della pelle, il luogo di nascita, l’orientamento sessuale ed infine la classe sociale di appartenenza.

Ecco così che il nostro modo di autodeterminare spazio e tempo e la libertà che ne consegue dipendono da qualcosa che non dipende da noi, che non possiamo scegliere, rendendo di fatto la nascita qualcosa di completamente casuale e la meritocrazia qualcosa di profondamente invalidante.
Perché se il merito non sta in qualcosa che possiamo scegliere o peggio ancora si posiziona in qualcosa che non ci permette di avere lo stesso potere di azione sul tempo e sullo spazio, allora inevitabilmente la vita apparirà ad alcuni un grandissimo dono e ad altri un grandissimo peso.
Ed è da questo peso che nascono le lotte della collettività, dalla sensazione condivisa che questa vita per come la si vive sia una prigione fatta di tempo che ci viene sottratto (un esempio su tutti il lavoro) e di spazio in cui siamo costretti (basti pensare ai processi migratori contemporanei e di come appunto spostarsi “altrove” sia l’unico meccanismo di liberazione che milioni di persone possono mettere in atto per sopravvivere”.)

E in un mondo in cui per alcuni il tempo è schiavitù e lo spazio è privazione dei diritti, la resistenza per riappropriarsi di tempo e spazio passa appunto per quel fenomeno che da sempre è la perfetta sintesi di riappropriazione di Tempo e Spazio: Il Viaggio.
O come direbbe qualcuno: l’Odissea.

“La stessa precaria odissea la vivono i protagonisti delle immagini di Ken Grant, fotografo inglese interessato a raccontare la vita delle classi operaie inglesi in progetti a lungo termine. Il luogo in cui questo racconto si dipana è un distretto portuale in cui Grant lavorò in gioventù come operaio, e con il quale strinse un forte legame. Un mondo ai margini del fiume Mersey, nel suo entroterra, in particolare nella vasta distesa paludosa del Bidston Moss.
Ken Grant dal 1989 al 1997 si immerge in quel mondo e in coloro che ne dipendono per sopravvivere. Ne deriva una narrazione in cui le persone fotografate conducono le proprie vite alla ricerca di una stabilità, in un’epoca in cui poco è stabile. Muovendosi attraverso il Moss, i docklands, le sue tracimazioni e i bordi della città stessa, Benny Profane è un lungo resoconto di un’area e di coloro che l’hanno plasmata durante i suoi ultimi anni.”

Così è questo che facciamo per riprenderci ciò che ci spetta e contribuire ad una nuova idea di mondo in cui nascere non sarà più un’ingiustizia: lavoriamo in funzione di autodeterminare e riappropriarci del nostro tempo e costruiamo un mondo in cui il diritto alla migrazione possa essere un meccanismo di resistenza riconosciuto. Non un dovere ma solo un diritto.
Viviamo la vita come un’Odissea, così come già Omero ci aveva raccontato in passato, con l’unica differenza che ora abbiamo capito che per agire quel cambiamento reale quell’Odissea non potrà essere il semplice percorso di salvezza di noi stessi, ma un meccanismo di resistenza collettivo in cui finalmente il genere, il colore della pelle, il luogo di nascita, l’orientamento sessuale ed infine la classe sociale di appartenenza non saranno più un peso, non saranno più un’etichetta. E lotteremo non solo per ciò che riguarda noi, ma lotteremo affinché la società che ora ci appare come una “discarica” diventi una “riserva naturale” ospitale esattamente come accaduto nel 1997 a Bidston Moss.

E l’immagine di questa lotta rimarrà perfettamente sintetizzata da quella fotografia di Ken Grant che ci racconta di due ragazzi seduti in cima ad un cumulo di rifiuti intenti ad accendersi una sigaretta, per riappropriarsi per un istante del loro tempo e del loro spazio, in un tempo e in uno spazio che non si sono scelti, insieme in un’Odissea condivisa.