FOTOGRAFIA EUROPEA 2022 1/5: SEIICHI FURUYA

Siamo stati a Reggio Emilia al Festival Fotografia Europea 2022 e abbiamo scelto 5 mostre che ci hanno colpito particolarmente da consigliarvi a cadenza settimanale da qui alla fine del festival. Ogni settimana dedicheremo ad una delle 5 mostre selezionate un articolo di approfondimento. Si parte questa settimana dalla prima:

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FIRST TRIP TO BOLOGNA 1978 / LAST TRIP TO VENICE 1985 di Seiichi Furuya 

Ho sempre pensato che il momento più difficile nell’attraversare un lutto fosse quello imminente alla morte di qualcuno. In realtà poi con il tempo quando è capitato a me, mi sono accorta che esiste una sorta di periodo di decompressione che permette di metabolizzare e distillare il dolore nel tempo.

Prima credevo che più col procedere del tempo ci si allontana dal momento della perdita più si smette di soffrire; poi però per me è accaduto esattamente il contrario.

Come con la riabilitazione fisica dopo un trauma l’adrenalina scorre e fa perdere lucidità, il corpo e la mente reagiscono come un perfetto meccanismo di autopreservazione e non si realizza a pieno ciò che si sta vivendo, forse non lo si realizza mai veramente a pieno del tutto. Ma ciò che sta accadendo a me è che ora che il tempo passa è come se la consapevolezza di quella perdita si avvicini sempre di più anziché allontanarsi. E’ strano spiegarlo ma è come se il dolore provato per la scomparsa ci permetta in qualche modo di non fare i conti razionalmente con quella perdita, non subito almeno.

Ci sentiamo privati di qualcuno, ma anche e soprattutto di qualcosa, vittime di un ingiustizia. Il tempo però poi si porta via il dolore e lascia spazio alla consapevolezza di tanto altro e con sé anche la convinzione irreversibile che esisteva un legame tra noi e ciò che non esiste più. Così più il tempo passa e più la mente colma quel vuoto cercando ragioni a qualcosa che ragioni non ha.

Un anno fa ho perso improvvisamente mio padre e mi sono resa conto di come io della morte non sapessi veramente nulla. Sono stata catapultata nella piena consapevolezza di come la morte nella società occidentale sia un tabù e di come preferiamo negare e cancellare ogni traccia che possa rimandarci al pensiero che la morte sia qualcosa di strettamente connesso e indissolubile alla vita.

Costruiamo le nostre intere esistenze rinnegando la morte, viviamo il nostro corpo come una corazza immortale, adottiamo stili di vita capitalisti volti al solo scopo di accumulare una ricchezza che tende a infinito, sfruttiamo e veniamo sfruttati nel lavoro come se avessimo mille altre vite di cui poter godere.

La verità è che non accettiamo la morte perché farlo ci porterebbe inevitabilmente a condannare la nostra stessa società e tutti i compromessi a cui ci sottopone. Non accettiamo la morte perché quindi dovremmo interrogarci anche sul nostro stesso modo di concepire la vita. Sui vari modi in cui scegliamo di vivere la vita.

Il lavoro su tutti: un cortocircuito sociale in cui il tempo ci viene sottratto in cambio di denaro, fino alla contraddizione per cui dovremmo essere grati di rinunciare al nostro tempo e quindi alla nostra vita in cambio di un lavoro.

Tutto nella nostra società sembra parlarci della vita come di qualcosa di sacro senza mai interrogarsi davvero sul fatto che ciò che ad oggi chiamiamo vita non sia piuttosto un compromesso al ribasso.

Rifiutiamo l’idea di aver contribuito a costruire una società in cui la vita può per alcuni essere una condanna ed una lotta senza fine.

In difetto: è così che mi sono sentita quando un anno fa perdendo mio padre sentivo il bisogno di capire che cosa fosse la morte, comprenderla, analizzarla per poi finalmente accettarla come parte dell’esistenza.

Più cercavo qualcosa che mi spiegasse in cosa consista davvero la morte, più trovavo qualcuno o qualcosa pronto a gridare che la vita è tutto.

In quel mio cercare ostinato l’unica forma di sollievo per me è stata scoprire che per la religione shintoista la morte viene concepita come un viaggio di liberazione. In Giappone infatti si è soliti credere che in ciascun essere umano risieda uno spirito divino chiamato kami. Il corpo mortale nel corso della vita viene indebolito da quello spirito che lentamente lo consuma fino alla morte del corpo stesso. Quel momento quindi diventa un momento di liberazione in cui lo spirito riacquista finalmente tutta la sua forza. Tuttavia tale spirito continua ad avere bisogno della cura dei propri cari i quali hanno la responsabilità di provvedere ai suoi bisogni in attesa che lo spirito del defunto compia il suo viaggio.

La morte rappresenta così un momento transitorio, che invece che allontanare il defunto dai suoi cari, lo lega ancora di più a quest’ultimi sottolineando l’importanza di prendersi cura di questo legame.

I bisogni dello spirito sono letteralmente nelle mani di chi è rimasto sulla terra ed ha il compito di provvedere ad accompagnarlo serenamente in questo viaggio: secondo la religione infatti ogni spirito non dovrebbe lasciare conflitti irrisolti, dubbi o rancori alle sue spalle nel momento della morte per evitare che quella negatività possa inficiare il suo viaggio.

  

“Il giapponese Seiichi Furuya con la mostra First trip to Bologna 1978 /Last trip to Venice 1985 racconta il primo e l’ultimo viaggio fatti insieme a sua moglie Christine Gössler, attraverso ritratti intimi e fermo immagini, che gli hanno permesso di ricostruire la memoria di quei momenti, fino al suicidio di Christine.

Da quel doloroso istante, la donna ha dominato il mondo spirituale per il resto della vita dell’uomo attraverso la morte. Lui, utilizzando come fossero indizi, le fotografie scattate durante i sette anni trascorsi insieme, tenta di ricostruire le circostanze che l’hanno portata all’infelice fine, cercando una risposta impossibile. Poi la ricerca si ferma, 37 anni dopo la morte della donna.

Questa mostra presenta un “viaggio” creato da Seiichi sulla base delle immagini di Christine ed evidenzia la durezza del destino e allo stesso tempo la gioia di vivere che caratterizzano l’incertezza della vita umana.”

 

Così quando mi sono trovata davanti al lavoro di Seiichi Furuya la sensazione è stata quella di ritrovarmi contemporaneamente di fronte ad un tentativo del fotografo di continuare a prendersi cura attraverso queste foto della moglie, di trovare a suo modo una maniera per permettere alla donna di risolvere qualcosa che era inevitabilmente stato lasciato irrisolto, ma anche e soprattutto di fronte ad un tentativo dell’autore di usare la fotografia per parlarci finalmente di qualcosa che qui nessuno sembra non aver mai il coraggio di dire: non è possibile immaginare e rendere giustizia a pieno al concetto di vita senza comprendere che vita e morte sono un tutt’uno indissolubile.

Non è illudendoci che la morte sia qualcosa in opposizione alla vita che celebriamo il valore della vita, ma è piuttosto attraverso la morte ed il riconoscerla come parte costante delle nostre vite che possiamo a pieno comprenderne il valore.

Seiichi Furuya ci racconta di due viaggi trascorsi con la moglie in Italia, il primo a Bologna ed il secondo a Venezia ed è, sovrapponendo la narrazione di quei viaggi alla narrazione shintoista della morte come un viaggio, che il tempo in questo progetto smette di essere lineare per diventare circolare: le foto rappresentano i viaggi delle vacanze del passato, il viaggio nell’aldilà che si compie nel futuro ed il viaggio nel presente  del fotografo che tenta attraverso queste immagini di comprendere le ragioni del suicidio della moglie per sciogliere finalmente quei nodi irrisolti che potrebbero turbare il viaggio dello spirito della compagna nell’aldilà.

E’ un lavoro che ci mostra come la morte sia qualcosa di presente non solo nella storia del soggetto ritratto, ma anche nella coppia e forse più di tutto ci mostra come la morte sia qualcosa in cui siamo profondamente e costantemente immersi anche se la nostra società preferisce immaginare che non sia così.

Perfino l’allestimento delle foto, due file lineari di immagini una sopra che va da destra a sinistra ed una sotto che va da sinistra a destra per poi incontrarsi nel mezzo, sembrano volerci far riflettere su come anche nella nostra stessa vita qualsiasi sia la direzione che scegliamo di darle, alla fine tutto tornerà a combaciare comunque in un’unica destinazione più grande.

Così io a distanza di un anno continuo ancora ad interrogarmi su che immagine abbia la morte, ma da qualche giorno nella mia mente ha la forma di uno scatto di Seiichi Furuya: un auto in viaggio senza pilota e seduto accanto sul sedile del passeggero lo spirito della persona defunta. Sul cofano dell’auto un gatto che ci fissa dallo specchietto retrovisore e noi seduti sul sedile posteriore intenti a scattare una foto e ad accompagnare quell’auto a destinazione per quanto ci sarà possibile-

Fuori un paesaggio che non siamo in grado di cogliere pienamente, ma sopra di noi il cielo è bianco e privo di nubi.

 

Fotografia Europea è un festival culturale internazionale dedicato alla fotografia contemporanea. Nato nel 2006, è promosso da Fondazione Palazzo Magnani e Comune di Reggio Emilia.
Punto di partenza è la fotografia come strumento per riflettere sulle complessità della contemporaneità seguendo la lezione del fotografo reggiano Luigi Ghirri, figura di spicco per il rinnovamento della fotografia nel secondo Novecento, il cui archivio è conservato in città.

 

Il festival si svolge in diversi luoghi della città pubblici e privati, formali e informali, e si compone di un nucleo centrale di mostre, tra cui nuove produzioni commissionate ad hoc, dedicate ad un tema specificoindividuato ogni anno dal comitato scientifico. Alle mostre si affianca un ricco programma di eventi, conferenze, proiezioni, workshop, letture portfolio, spettacoli site specific.