miles davis doo bop

Quando Miles Davis fece un disco hip hop

Correva l’anno 1992, mentre qui in Italia il rap stava faticosamente sgomitando per venire fuori attraverso artisti come Ice One, Isola Posse All Star, Kaos One e tanti altri, negli States era già diventato fenomeno di massa, fra le scandalizzate facce della borghesia bianca. Proprio in virtù dell’essere un genere ben affermato cominciavano anche le ibridazioni e così una leggenda del jazz come Miles Davis decide di fare un album hip hop insieme a Easy Moo Bee.

Per quanto il rap e la cultura hip hop avessero preso a piene mani dalla musica black come il jazz e l’r’n’b non c’erano mai state connessioni così strette fra i generi, soprattutto con esponenti di punta. La genesi del disco fu particolare, si racconta che Davis fosse nel suo appartamento di New York ad ascoltare i rumori della città quando gli venne l’idea di fare un album che riuscisse a cogliere questi suoni; chiese così al suo amico Russell Simmons (co-fondatore dell’etichetta Def Jam Records) di trovargli un producer giovane che lo aiutasse in questo lavoro, così arrivò il contatto con Easy Mo Bee, e da lì nacque Doo Bop, che fonde i nomi di due sottogeneri del jazz, il Doo-wop e il Be-bop. Purtroppo Miles Davis non vide mai il disco completato perché morì nel 1991, prima che questo venisse ultimato.

Easy Mo Bee chiese allora alla Warner di poter completare il disco con delle registrazioni mai pubblicate di Davis risalenti al 1985 dall’album Rubberhand (che sarà poi pubblicato nel 2019 integralmente), affermando che avrebbe creato delle canzoni “Che Miles avrebbe amato”. Queste canzoni postume sono High Speed Chase e Fantasy, in aggiunta come chiusura dell’album è stata aggiunta una ripresa della canzone Mistery.

L’album, purtroppo, ricevette un’accoglienza tiepida da parte della critica, per non dire di assoluta stroncatura, quasi tutte le maggiori testate musicali che recensirono il disco lo trattarono come un progetto di poco conto come per esempio il critico Greg Tate che lo definì “Un’insignificante registrazione di jazz-rap da parte di Davis”, altri si scagliarono contro le parti rappate, ovviamente. L’hip hop era una cultura relativamente nuova alle orecchie dei critici, soprattutto da parte di chi era abituato ai virtuosismi del jazz e doveva scontrarsi con la ripetitività e la ritmicità del rap.

Proprio qui sta il genio e la congruenza con tutto il percorso di Miles Davis, detto anche “Il Divino”, un artista che non ha mai fatto della staticità e della stagnazione una caratteristica della sua musica ma che anzi negli ultimi anni della sua carriera si era fatto influenzare dal rock, dal funk, dal pop, fino ad approdare all’acid jazz e, con Doo Bop, proprio al rap, dando, forse, indicazione di quale sarebbe stata la direzione della sua carriera artistica se non fosse arrivata la sua prematura scomparsa.

L’eleganza con la quale Easy Mo Bee e Miles Davis riescono a fondere il campionamento del primo (fra i quali troviamo pezzi presi da altre leggende come James Brown e i Kool and The Gang) del secondo è impressionante, i due riportano alle origini entrambi i generi: in Doo Bop il rap ritrova il suo legame con la black music, di cui abbiamo già parlato, e il jazz ritorna a quello stato di musica popolare che forse da troppo tempo aveva perso diventando musica da camera per ricchi borghesi bianchi.

In conclusione, la cosa forse più tralasciata negli anni di questo album è quanto questo disco sia legato alla città di New York, nonostante Davis fosse dell’Illinois, è un disco che salta dalle forte tinte noir e fumose della tromba del Divino alle ritmiche elettroniche del rap, che rimandano ai cypher, alle battle e ai brani che la sempre fervente Nuova York si era riempita in quegli anni, da quando il rap era esploso nelle periferie e nelle classi meno abbienti.