1969: Achille Lauro e Boss Doms hanno spiazzato tutti, di nuovo

Dopo aver esplorato trap ed elettronica Achille Lauro e Boss Doms si danno al rock, stravolgendo le aspettative e dando nuova linfa alla “musica italiana” nel senso più classico. Il loro nuovo disco 1969 è un riuscito tentativo di conciliare tradizione e sperimentazione, capiamo perchè.

Pour L’Amour l’anno scorso aveva rimescolato le carte in tavola del rap game e non solo, un disco che aveva fatto discutere, polarizzando i giudizi del pubblico, talmente oltre le dinamiche del rap attuale da essere quasi considerato “altro”. Quest’anno la sfida era ardua, superare in genialità un lavoro del genere, beh con 1969 ce l’hanno fatta.

Che poi se ci pensiamo bene, facendo una veloce retrospettiva sui lavori di Lauro e Doms, non ce n’è uno uguale all’altro, hanno sempre cercato reinventarsi, di superarsi dimostrando di essere due artisti con la “A” maiuscola. Achille Idol Immortale è quello più puramente rap vecchia scuola, Dio C’è è quello che fa un po’ da ponte tra sonorità “anni ’10” e la nuova scuola, Ragazzi Madre è già un classico della trap italiana, probabilmente insieme a XDVR di Sfera e alla Dark Trilogy della DPG, e infine Pour L’Amour ha scombussolato tutto infilandoci dentro samba, house, techno e tutto un mondo di elettronica tamarrissima. Per il nuovo capitolo della loro discografia il duo romano si è lanciato sul rock.

Lo scandalo era già stato servito con Rolls Royce a Sanremo e tutta la ridicola polemica che ci aveva montato sopra Striscia La Notizia ma un orecchio attento poteva già intuire la direzione avevano intenzione di prendere con il nuovo album: il rock l’avrebbe fatta da padrone. Oltre all’infinita serie di icone del rock nominate nel singolo presentato sul palco dell’Ariston le schitarrate di Frenetik ed Orang3 erano prorompenti e coinvolgenti.

A Rolls Royce è seguito C’est La Vie, ultimo singolo uscito prima dell’album completo, dai ritmi e dalle tematiche completamente diverse dal primo brano: una struggente ballata d’amore, un colpo al cuore che ricorda altri brani romantici scritti da Lauro in passato come Playground Love, Penelope o Amore & Grammi. Ma a prescindere da questo la produzione ancora una volta era completamente acustica, strumenti suonati e zero campionamenti, con una forte ispirazione a ballate rock come Don’t Cry dei Guns’n’Roses.

Il resto del disco continua su questa dualità di stili perfettamente alternati e bilanciati (“…come tutto dovrebbe essere”), passando da pezzi ballabili a canzoni più melanconiche e poetiche.
Proprio da questo si può vedere la capacità lirica di Lauro, una delle penne più complete, a mio parere, della scena attuale, un vero e proprio poeta maledetto del blocco, come se Bukowski fosse nato e cresciuto nella periferia di Roma. Achille inoltre è riuscito a mantenere quella vena di ragazzo delle popolari nonostante il suo successo ormai sia alle stelle, continua a raccontare con uno stile personalissimo un realtà complicata e controversa.

Parlando di 1969 non si può non parlare del lavoro svolto da Boss Doms, ormai una sicurezza di cui non ci sarebbe nemmeno da parlare, ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare e quindi diamo risalto al lavoro di un polistrumentista come pochi ce ne sono nella scena che dimostra una cultura musicale sconfinata passando dall’house al rock più classico riuscendo a lasciare quel sentore “urban” che non era così scontato che rimanesse.

Importante prima di chiudere sottolineare come in questo disco la componente rap, intesa come modalità di scrittura, sia stata quasi del tutto accantonata (tranne in pochi passaggi) in favore di un cantanto vicino al rock italiano, che ha una lunga tradizione nella penisola con esponenti come Vasco Rossi e Battiato. C’è da dire che qua e là Lauro ha voluto lasciare dei messaggi ai suoi fan, dei rimandi ai suoi progetti precedenti, specialemente in Rolls Royce dove cita una barra di Barabba II, in Zucchero dove torna la parola “immortale”, titolo del suo primo album e infine in Scusa dove cita un verso di BVLGARI. Come a dire: “Tranquilli, sono cambiato ma non mi sono scordato da dove vengo”.

In conclusione 1969 è un ottimo esempio di come un artista possa allargare il target senza svendersi, di come si può proporre qualcosa di interessante anche approcciando il grande pubblico, un progetto coeso e coerente sotto ogni punto di vista: musicale, concettuale e lirico, certamente ispirato a una certa scena musicale ma con un anima tutta sua. Un disco che forse non avrà una grossa influenza sul mondo rap ma che è destinato a riscrivere le regole della musica italiana di oggi, già appoggiato da un’autorità come Vasco.
Ora aspetto solo di vederlo live perchè promette davvero bene.

P.S. Achille se stai leggendo, con C’est La Vie e Scusa mi hai letteralmente distrutto il cuore.

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