Pieces of a Man: da Gill Scott Heron a Mick Jenkins – Recensione

Signore e signori preparatevi a ricalibrare i vostri padiglioni auricolari: Pieces of a man di Mick Jenkins ci fa viaggiare su frequenze basse, veramente basse.

Il rapper classe 1991, originario dell’Alabama ma cresciuto artisticamente a Chicago, si è sempre contraddistino per un approccio filosofico ed uno stretto legame con la black music, che nel suo ultimo album sembra essersi rinforzato.

Questo si può notare facilmente dal titolo, che altro non è che una citazione dell’omonimo disco di Gill Scott Heron. Questo omaggio è rimarcato da due skit intitolati Heron Flow, in cui la calda parlata di Mick si alterna a improvvisazioni jazz e risate di sottofondo, come se fossimo in un lounge bar degli anni ’70.

L’atmosfera del disco ti avvolge e non ti lascia più: non si può fare altro che distendersi, dimenticare il tran-tran della giornata e farsi cullare dal groove lento, quasi stanco, che ti fa ondeggiare, e dalla sua rappata profonda e sincera. Mick è un mc ma quando entra sul beat lo fa con la dolcezza del bluesman,  accarezzandolo con le mani dei suoi antenati, irruvidite dal cotone.
Il dondolio è mosso da chicche jazzy in cui gli acuti emergono dal grasso che trasuda il beat, sostenuti dagli immancabili drill di Charleston perché si sa, le radici non si dimenticano.

Due brani in particolare necessitano una menzione: il primo è Smoking Song con i Badbadnotgood, un quartetto che unisce l’hiphop al free jazz, collaboratori di lunga data del nostro Mick, l’altro è Padded Locks in featuring con una vera e propria istituzione del rap: Ghostface Killah del Wu-Tang Clan in un brano veramente esplosivo.

Mick Jenkins è la terra da cui proviene: se fosse nato 60 anni fa sarebbe stato il cantante girovago e maledetto che stregava gli ascoltatori a ritmo di blues e lacrime.
Cambiano i tempi, gli aggettivi, ma la sostanza rimane la stessa.