Grande boccia, grande pesce: la “Big Fish Theory” di Vince Staples – Recensione

Per me è molto difficile rispondere alla classica domanda “cosa ascolti?”.
Se capita rispondo sempre hiphop, perchè è il genere ha cambiato il mio modo di ascoltare la musica, ma ho ascoltato ed ascolto veramente un botto di roba diversa, come tutti del resto.
L’unica cosa che veramente non ho mai retto è il pop, in tutte le sue infinite declinazioni. È come un intolleranza alimentare: assaggio qualunque brano di qualunque genere ma appena sento qualcosa di vagamente poppeggiante lo rigetto. Ci ho provato, giuro. È fisiologico.

Questo non per menarmela su quanto sono outsider e alternativo, ma per raccontarvi di quella volta che sono riuscito ad apprezzare qualcosa di pop.

Qualche mese fa, scrollando annoiato i correlati di qualche singolo su YouTube, mi sono imbattuto in questo pesce rosso che mi fissava da dentro il suo oblò. Quello che stavo per ascoltare era Big Fish Theory, il più recente album di Vince Staples, la sensazione che ho avuto dopo l’ascolto è stata più o meno quella di fare un bagno in un acquario domestico. Avevo appena ascoltato qualcosa di folle e sconsiderato, qualcosa di scomodo e stretto ma allo stesso tempo estremamente divertente.

Vince Staples era entrato nelle mie orecchie qualche anno prima, grazie a parecchi featuring con Earl Sweatshirt, un giovane talento della Odd Future. A quel tempo mi piacque ma non mi colpì al punto da approfondire la ricerca. Peccai di superficialità.

La “Big Fish Theory” è la teoria secondo cui un pesce cresce in base alle dimensioni della boccia in cui nuota. In questo senso l’acquario di Vince è stata Long Beach, città della costa californiana controllata dai Crips, storica gang della west-coast che il rapper ha bazzicato in gioventù.
Un background che forse oggi gli sta stretto, così come gli sta stretta la definizione “hiphop”. Così Vince è cresciuto come un pesce grande in una boccia piccola, in contraddizione con la sua teoria, ma pur sempre a due passi da LA.

Parlare del disco mi è veramente difficile perchè mi ritrovo in un ossimoro continuo: è apocalittico e felice; ballabile e cupo. Ogni brano è un alternarsi di generi e influenze differenti ed apparentemente contrastanti: ci trovi il rap fatto come si deve, alcuni dei bassoni trap e g-funk più cupi sulla piazza, ritmi che vanno dal boom-bap alla Detroit-techno per sfociare in sperimentazioni veramente difficili da definire. Poi entra il ritornello melodico, l’hook accattivante, le vocine col pitch acuto, sonorità hose/EDM con i suoni stile raggio laser inclusi… tutte quelle cose che non ho mai retto.

La miscela però è perfetta e gli elementi pop/elettronici hanno un sapore diverso dal solito, non sono lì solo per rendere tutto più semplice ed appetibile alle masse ma diventano un elemento di avanguardia e sperimentazione.

Il merito però non è solo di Vince e della sua incredibile versatilità, ma anche dei diversi producer che lo hanno affiancato, provenienti perlopiù dal pop e dall’elettronica sperimentale. Gran parte delle basi sono affidate al giovane beatmaker visionario Zack Sekoff e a Sophie, una che ha prodotto gente tipo Madonna e MØ usando una Elektron Monomachine analogica. Non mancano poi i featuring e le comparse illustri, che vanno da Kendrick Lamar a Damon Albarn dei Gorillaz.


Anche il packaging del disco è qualcosa di geniale

Il giorno dopo mi sono alzato con tre parole incise a fuoco nel cervello: “boy-yeah-right”.
Ecco l’anatema, il mostro finale: il ritornello odioso e ripetitivo che ti si pianta in testa dopo il secondo ascolto di un tormentone commerciale.
Ma questa volta mi piaceva.

Così sono salito sul bus e me la sono ascoltata fino alla follia, e ogni volta era più figa, e ogni traccia dell’album mi sembrava sempre più figa. Probabilmente muovevo la mia testa assonnata seduto nell’ultimo sedile come un coglione ma in quel momento l’unica cosa che mi passava per la testa era “bwoyyeahrrightyeahrrightyearright!”.

Non sono cose che capitano tutti i giorni.


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